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Per una boccata di tabacco

11 years ago

1217 words

Per una boccata di tabacco

di Vincenzo Selleri

 

A guardarlo di lato quel taglio sembrava profondo abbastanza da toccare l’osso. Gli faceva male,  ma non sanguinava più. Avrebbe avuto bisogno di un punto di sutura, ma andare in ospedale era fuori discussione. I moduli, l’odore dei medicinali, il  ronzio degli sterilizzatori, la vita intermittente dei neon e soprattutto l’attesa. Non aveva tempo da perdere. Si assaggiò con la punta della lingua riconoscendo il familiare sapore metallico del sangue. Ci meravigliamo della capacità di alcuni molluschi di crescere una conchiglia e dimentichiamo che siamo una sacca di organi appesa a uno scheletro costituito principalmente da calcio – pensò Ilario. Non sciacquò la ferita sotto l’acqua di rubinetto che contiene troppi batteri. La pulì invece con la sua saliva, entrò in casa senza badare alle orme fangose che si lasciava dietro e si diresse in cucina. Lamentandosi non della sua inettitudine, ma della fragilità umana, della ridicola delicatezza di questa sacca epidermica che ci racchiude, pensando alle milioni di variabili che avrebbero potuto contribuire all’evoluzione di una scorza callosa, più simile al cuoio di una buona cinta che al morbido seno della Verginissima, afferrò una birra già aperta dal frigo e si sedette al tavolo. La birra era freschissima, ma maledettamente sgassata. Esistono nel mondo varietà di birra pressoché senza gas e che vengono servite anche tiepide dunque non c’è nulla di male nel bere questa birra liscia, fondamentalmente – si giustificò ad alta voce. Nessuno lo poté sentire perché era solo in quel momento. Sapeva bene che la scusa non reggeva affatto perché la sua Ceres era molto lontana  dalla tradizione medievale delle Ales inglesi prodotte in un periodo in cui se i frigoriferi fossero esistiti la birra sarebbe stata sicuramente servita ghiacciata perché non c’è niente di meglio di una birra ghiacciata. Una verità, fondamentalmente - si rassicurò senza però arrischiare di ammetterlo ad alta voce. Indossava una camicia come se gli fosse stata gettata addosso, i pantaloni con la patta  decisamente decentrata e tirati su come se li avesse volontariamente appesi alla parte destra del bacino. Batté nervosamente sulle tasche, ma non vi trovò sigarette perché aveva smesso di fumare. Inizio ad aprire i cassetti della cucina, alcuni lasciandoli aperti, altri sbattendoli con una tale forza che rimbalzando tornavano ad aprirsi.   Uscì dalla cucina come soffiato via dallo stesso uragano che si lasciava dietro un cimitero di cassetti rivoltati. Per fortuna sua madre fumava ancora e nel comodino accanto al letto teneva sempre un pacco di Muratti d’emergenza. Passò attraverso la porta girandosi di lato senza nessun apparente bisogno di effettuare questo quarto di piroetta, ma accorgendosi di farlo. Rimase indifferente a se stesso. Si guardò velocemente intorno registrando la presenza dei soliti oggetti compresa una madonna sotto una campana di vetro che la madre, nonostante integralmente atea, conservava nella sua stanza. Come memorandum dell’idiozia umana – diceva. Ilario sospettava a volte che fosse segretamente cattolica. Inciampò su un capo di abbigliamento abbandonato a terra, ma non si curò di comprendere cosa fosse, e arrivò in ginocchio davanti al comodino. Le sigarette mancavano. Un gattò miagolava alla finestra supplicando di essere nutrito, ma lui volle interpretare i versi felini come una derisione operata a suo danno. Afferrò la maglietta che l’aveva fatto inciampare, di questo trattavasi, e appallottolatala la scaraventò con tutta la sua forza contro il gatto.  I vetri vibrarono sifilidicamente e il gatto anziché saltar via si sedette, abituato alle minacce dell’umano che in fondo sapeva amico. Sì, perché nonostante Ilario trovasse la maggior parte dei suoi simili sinceramente rivoltanti, non provava fastidio nell’essere oggetto delle utilitaristiche effusioni dei gatti che la madre si ostinava a nutrire nell’orto. Il gatto non dimostrava affetto per essere nutrito. Le fusa arrivavano in momenti inaspettati così come la voglia di uscire o l’irrequietezza che si concretizzava in imprevedibili attacchi. Così come la sua voglia di fumare, ora. La macchina mancava. Sebbene l’assicurazione fosse da tempo scaduta, l’aveva presa la madre. Dovesse fosse andata era assolutamente ininfluente a questo punto. Tirò la porta e si diresse verso la piazza con una andatura che a ben pensarci sarebbe potuta essere quella di Long John Silver. Ilario però aveva ammutinato solo se stesso. La sua ferita che non si era certo cauterizzata con la saliva, continuava a perdere sangue disegnando una strana traccia sul marciapiede di pietra. Era così caldo e secco che il sangue si raggrumava quasi istantaneamente, lasciando aperta l’ipotesi che si cuocesse al contatto con la pietra leccese. Non ci pensava affatto alla ferita, così come non pensava al fatto che in agosto alle 2:45 nessuno sarebbe stato in piazza. Infatti era deserta. Totalmente. Si impadronì del centro della strada ed osservò la circonferenza disegnata dagli edifici che si affacciavano sulla quella distesa di pietre roventi. Gli zoccoli di un cavallo echeggiarono da un viottolo laterale. Le campane batterono le 3 e dei piccioni planarono pigramente giù dal tetto della chiesa matrice. Ilario non fu affatto distratto né dai piccioni, né dalle campane, né tantomeno dal rumore degli zoccoli che sebbene inaspettati erano, aveva computato, una possibilità del tutto ragionevole. Infondo viveva in una zona rurale dell’Italia meridionale. A lui interessava solo una sigaretta. Il suono degli zoccoli si fece sordo quando il cavallo uscito dal vicolo entrò in piazza. Ilario guardò il suo cavaliere dagli occhi di ghiaccio con in bocca un mezzo toscano.

- Hai una sigaretta?

Clint Eastwood morse il suo sigaro e lo guardò intensamente senza rispondere.

- Ce l’hai o no? – insistette Ilario, ma Eastwood continuava a fissarlo.

Una coppia di corvi si appollaiarono in cima alla croce della chiesa di S. Oronzo incuriositi dalla situazione.

Eastwood osservò la scia di sangue che Ilario aveva tracciato pensando che assomigliava tanto a una delle pennellate degli ultimi lavori di Pollock, ma non lo disse.

Un’altra goccia di sangue cadde a terra dove si formava una piccola pozza al centro di una chianca erosa. Si alzò un po’ di vento.

Ilario infastidito dal silenzio del cavaliere dagli occhi di ghiaccio gli girò la schiena e si diresse verso il retro della chiesa madre dove sperava di trovare almeno una mezza sigaretta spenta frettolosamente da un chierichetto prima dell’inizio della messa.

Clint Eastwood gli si parò davanti con il cavallo e guardandolo con un misto di disgusto e rabbia sputò in terra.

- Ma si può sapere che cazzo vuoi, Eastwood?

Il gatto che era alla finestra aveva seguito la scia di sangue e si dirigeva con decisione alla ferita pulsante di Ilario.

Il cavaliere spostò il suo poncho esponendo una colt.

-Ma sparami che mi importa? Fondamentalmente adesso voglio solo fumare e se non posso … allora mi sta bene anche

Ma Ilario non finì mai la sua frase perché Clint Eastwood lo sparò in fronte. Poi scese dal cavallo e gli infilò il sigaro acceso in bocca e lentamente andò via.

Il gatto si avvicinò a Ilario e dopo aver annusato la ferita bruciata dal proiettile, concepì che con la sua morte ci sarebbe stato un umano in meno che l’avrebbe nutrito.

- Che spreco – disse il gatto e sfilatogli il sigaro di bocca si stese sul suo ventre immobile gustandosi una bella boccata di puro tabacco toscano.

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